UN AUTIERE ALLA GRANDE GUERRA: ESPLODONO I CANNONI

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“La pace per vincere la guerra”, un evento presso l’ANMIG «Poesia come arma di pace», secondo appuntamento organizzato da “Tinelli Poetici”
24 dicembre 2016
Al sorger del sole del 17 di ottobre 1942, il 14º reggimento, guidato dal colonnello Antonio Ajmone Cat e supportato da una colonna di artiglieria ippotrainata, il 3º squadrone carribasato su carri L6/40 ed il battaglione Camicie Nere divisionale[2] (81°), muoveva verso Primislje in una normale operazione di controllo quando, nelle prossimità del fiume Korana, un manipolo di partigiani Jugoslavi esplosero dei colpi di grosso calibro dalle alture circostanti, uccidendo subito un ufficiale e un cavalleggero e ferendo diversi uomini e cavalli. Dopo un leggero ripiegamento del 14°, che però ha dato tempo ai partigiani di riorganizzarsi e di appostarsi nelle alture vicine, alle 13.00, il reggimento si mosse in formazione a losanga, rinforzato dallo /40squadrone di supporto con carri e pezzi d'artiglieria.
Alle 14.30, questo raggiunse Poloj e si schierò nella valle in ordine di combattimento, poiché le alture erano tenute dai partigiani, e subito iniziò un violento scontro a fuoco. Alle 17.00 si accentuò la pressione avversaria, così il generale Lomaglio, comandante della 1ª Divisione Celere "Eugenio di Savoia"[2], ordinò dal comando di proseguire per Primisljee mandò sul posto il generale Mazza, vicecomandante la divisione. Alle 18:30 Lomaglio, col far del buio, decise di far ritirare le forze a Perjasica, ma ormai i partigiani aspettavano questa mossa. Il colonnello Cat mandò in scoperta il primo squadrone del capitano Antonio Petroni con lo squadrone comando e quello dei mitraglieri.
Nel frattempo il terzo squadrone, sfoderate le sciabole, si lanciò alla carica sui partigiani che scendevano dalle alture a sinistra, mentre il secondo faceva lo stesso dal lato opposto; in retro guardia il quarto squadrone del capitano Vinaccia caricò ripetutamente per coprire la ritirata dell' artiglieria e degli automezzi: il capitano cadde nello scontro, ma le perdite partigiane furono nettamente superiori. I pochi partigiani rimasti, a questo punto, decisero di organizzare un terzo sbarramento, ma una poderosa carica di sciabole riuscì a spezzare l'accerchiamento formatosi e a metterli in fuga.
A fine battaglia, in tarda serata, il 14º Cavalleggeri contava 129 caduti e una settantina di feriti, ma le perdite partigiane erano abbastanza alte da determinare per l'Italia non solo una vittoria strategica, ma anche una vittoria tattica. I cavalleggeri rientrarono vittoriosi la mattina del 18 ottobre a Perjasica, accolti dagli alti comandi con tutte le glorie, nonostante l'amarezza per aver perduto nello scontro il regio stendardo che accompagnò quel reparto durante tutta la sua storia.
La carica di Poloj fu una azione di grande importanza, in tutti gli aspetti, pur non essendo scaturita dalla autonoma decisione del suo comandante ma quasi imposta dall’alto, per eseguire un ordine; eseguita in maniera esemplare dai soldati italiani, con diversi atti di eroismo individuali, che valsero loro 12 Medaglie d'Argento al Valor Militare, altre di Bronzo e Croci di Guerra ad ognuno.
Alessandria rientrò come gli era stato ordinato ma pagando un alto prezzo in vite umane: 129 morti e una settantina di feriti che, secondo analisti militari e strateghi, avrebbero potuto essere evitate o quantomeno ridotte se il combattimento fosse stato condotto liberamente dal comandante sul campo. Difatti su questa carica, dopo un galvanizzamento generale, venne quasi immediatamente steso un velo di imbarazzato silenzio. Divulgare completamente le circostanze in cui avvenne avrebbe forse messo in luce le manchevolezze dei comandi e la leggerezza con cui venivano impartiti gli ordini.
Il tenente Giuseppe Carli e la carica di Poloj
24 dicembre 2016

UN AUTIERE ALLA GRANDE GUERRA: ESPLODONO I CANNONI

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“I tre posti da evitare assolutamente: dietro ai muli, davanti ai cannoni, vicino ai superiori”. Questa era una massima molto citata fra noi militari. Dai racconti e dalle foto di Sandro Cerri, veniamo a sapere che non sempre la massima dice il vero. Per esempio, rispetto ai cannoni, qualche volta era pericoloso anche starci dietro. Stralciamo, come sempre, dalla sua testimonianza in “Ultime Voci dalla Grande Guerra”
“Il bombardamento aveva raggiunto un’intensità mal sopportabile dai nostri mortai, il cui calibro richiedeva un certo intervallo tra un tiro e l’altro. Nella mattinata scoppiò un nostro pezzo, per una granata deflagrata all’interno della canna. Non vi furono vittime, essendo stati rispettati gli ordini severissimi di porsi al riparo dietro i sacchetti di terra prima dello strattone del cordino percussore.
Verso mezzogiorno, un secondo pezzo seguiva la stessa sorte; una grossa scheggia troncò nel mezzo un albero, facendolo ripiegare sulla parte rimasta in piedi. Nel pomeriggio, mi venne il desiderio di recarmi a fotografare l’albero. Avevo appena scattato la foto, quando notai, a una cinquantina di metri, il terzo pezzo pronto a sparare. Mi diedi a correre per portarmi a distanza di sicurezza ma, temendo di non fare in tempo, mi gettai dentro il cratere scavato da una granata e mi rannicchiai verso terra. Il gesto fu provvidenziale, e la fortuna, ancora una volta, mi salvò la vita. Il pezzo saltò in aria, ed io venni letteralmente sommerso di terriccio. Un sasso mi colpì al viso. Mi rialzai con la faccia imbrattata di sangue: un graffio profondo al naso, il labbro inferiore spaccato, e un altro taglio presso la narice destra. Per fortuna si trattava di un sasso, ma se fosse stata una scheggia?”