UCCISO, SEPOLTO, DECORATO ALLA MEMORIA, ESCE DALLA TOMBA E…

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UCCISO, SEPOLTO, DECORATO ALLA MEMORIA, ESCE DALLA TOMBA E…

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di Valido Capodarca


UCCISO, SEPOLTO, DECORATO ALLA MEMORIA, ESCE DALLA TOMBA E…

Questa è l’incredibile e romanzesca avventura del sottotenente degli Arditi Giovanni Braca, classe 1899.

Dopo il vittorioso assalto a una trincea austriaca, nel prosieguo dell’azione si scontra con un battaglione ungherese. Nella battaglia viene colpito alla testa da una mazza ferrata e … si fa buio. I suoi due attendenti Mulè e Pulella lo portano fuori dalla mischia ma, ritenendolo morto, lo seppelliscono. Poi, tornati al reparto, comunicano la sua morte. Il suo nome esce nel bollettino dei caduti, un telegramma informa la famiglia, gli viene conferita la medaglia d’argento alla memoria, ma tutto questo egli non lo sa, perché giace nel suo sepolcro. Ecco il suo racconto da quando si risveglia nella tomba.

«Non so quanto tempo fosse trascorso quando, svegliandomi come alla fine di un lungo sonno, mi accorsi che non riuscivo a respirare: qualcosa di pesante mi opprimeva su tutto il corpo e sul petto in particolare. Cominciai ad agitarmi, a cercare di sospinger via da me quel misterioso fastidio. Con il primo raggio di luce che inondò i miei occhi, vidi due baionette puntate sul mio petto: due soldati tedeschi, attratti dal rumore da me provocato, erano accorsi e mi stavano accogliendo con quel simpatico benvenuto.

Condotto al Comando nemico, stanti le mie condizioni, col sangue raggrumato in viso e addosso, mi venne risparmiato il rituale interrogatorio. Affidato alle cure di un medico triestino, venni avviato a un ospedaletto a Feltre, da dove venni fatto proseguire per Belluno e quindi per Longarone. Qui, profittando di un momento favorevole, tagliai la corda con due colleghi. Questo mio gesto ebbe un’ulteriore conseguenza. Era consuetudine che i due eserciti contrapposti si scambiassero notizie, tramite la Croce Rossa, riguardanti i rispettivi prigionieri. La mia fuga impedì per conseguenza agli Austriaci di comunicare la mia cattura, e rimasero così inalterate, dalla nostra parte, le notizie riguardanti la mia morte.

Inoltrandoci per sentieri attraverso i boschi, trovammo rifugio in un fienile. Al mattino, giunsero alle nostre orecchie le voci di due ragazze che, rivolgendosi a un contadino, parlavano di alcuni ufficiali italiani sfuggiti ai Tedeschi e che era necessario aiutare. Resi fiduciosi da quanto avevamo ascoltato, palesammo la nostra presenza e quelle, con spiccata generosità, ci diedero tutto il loro aiuto… 

Dopo quattro giorni, ci giunse il rumore delle nostre artiglierie. L’avanzata dell’Esercito italiano era ormai incontenibile, e la ritirata del nemico diveniva sempre più una rotta….

Il 3 di novembre, quando giunsero le prime pattuglie di arditi, ci aggregammo ad esse e proseguimmo, ma l’armistizio ci fermò a Calalzo.

Il comandante del battaglione cui ci eravamo aggregati, ci invitò a tornare indietro, al nostro reparto. Ci incamminammo, e a Treviso mi separai dai due compagni di avventura per dirigermi a Bassano, dove era il mio reggimento. Fu in quel momento che mi balenò un’idea:

“A questo punto — mi dissi — che io arrivi domani o un altro giorno, non fa alcuna differenza; perché allora non approfittare per fare un salto a casa, da dove manco da otto mesi?”

Portatomi alla vicina stazione, montai su una tradotta diretta a Roma, e arrivai a Pisa. Era notte, e non v’erano mezzi per raggiungere Soiana, dove allora i miei vivevano. A Pisa, però, abitava una mia zia.

“Beh — mi dissi — stanotte mi farò ospitare da lei, e domani troverò il modo di raggiungere casa”.

Mi portai verso l’abitazione della mia parente e bussai, ancora del tutto ignaro di ciò che era avvenuto nei recenti giorni. Venne ad aprirmi la zia stessa la quale, come mi vide, fece il viso di chi vede un fantasma, strabuzzò gli occhi, e crollò di schianto, svenuta. Da dietro, si affacciò mio cugino, che non ebbe miglior sorte.

Durammo non poca fatica a spiegarci vicendevolmente come stavano le cose. Quando la situazione si fece sufficientemente chiara, si propose un nuovo problema: come avvertire la mia famiglia? A volte le buone notizie sono più devastanti delle cattive. Se la mia apparizione aveva generato tanto trambusto a casa degli zii, quale terremoto avrebbe provocato a casa mia? Decidemmo di telegrafare al maestro affinché, con le dovute cautele, preparasse i miei al mio arrivo.

All’indomani, in treno, mi portai a Pontedera, dove i miei erano ad attendermi. Come descrivere l’accoglienza che i miei e il paese di Soiana tutto, mi riservarono? Vennero a decine; tutti insieme, mi si gettarono al collo. La mia sorellina che, troppo piccola, non aveva trovato posto in alto, si era accoccolata a terra, dove aveva trovato una nicchia tra la marea di gambe, e mi cingeva strettamente le ginocchia con le sue braccine.

Mentre ci avvicinavamo a Soiana, in baroccino, mi venne incontro uno squillo di campane, sciolto dai miei amici in mio onore.

Mio padre mi accompagnò, nel corso della mia breve permanenza, anche al cimitero, dove mi mostrò la “mia tomba” con la lapide su cui campeggiava il mio nome. La cosa non mi parve di buon auspicio per cui afferrai una mazza e la feci a pezzi. Forse feci male: oggi mi farebbe piacere rivederla, di tanto in tanto; sarebbe un ricordo, e servirebbe a riderci un po’ su».