di Valido Capodarca
Pietro Carli, classe 1895, piccolo contadino toscano, 95 anni al momento del racconto, può essere considerato il prototipo di milioni di ragazzi che andarono alla Grande Guerra con una sola motivazione: che altrimenti sarebbero stati fucilati; e la combatterono con un solo ideale: riportare la pelle a casa. Così egli racconta lo svolgimento di una battaglia.
(Stralcio da “Ultime Voci dalla Grande Guerra”)
“Io mi trovavo in un punto in cui il fronte d’attacco seguiva un andamento simile alla curvatura di un ferro di cavallo, sì che attorno a me fischiavano e si intersecavano le pallottole che provenivano sia dal davanti che dai lati. Vista la mala parata, mi gettai al riparo di una sorta di pilastro di pietra, giusto giusto tra i corpi di due compagni morti. Ero lì, immobile, faccia rivolta a terra, quando udii il comandante di compagnia gridare:
“Sergente, là ci sono tre morti!” Con la coda dell’occhio, e conservando la più completa immobilità, vidi il sergente avvicinarsi da sinistra. Come fu vicino, egli afferrò una gamba del primo cadavere, la sollevò in alto, la rilasciò, e quella ricadde giù, ovviamente, come un peso morto.
“Sì, signor capitano, sono morti!” dichiarò il sottufficiale, senza darsi la pena di effettuare la stessa verifica sugli altri due corpi. Ero immobile, e senza respiro, ma il cuore mi batteva ali impazzata: cosa gli avrei raccontato, se si fosse accorto che ero vivo? Sì, avrei potuto raccontargli di aver avuto una crisi ma, quand’anche la mia giustificazione fosse stata accettata, mi sarei pur sempre dovuto rialzare, abbandonare il riparo, e proseguire l’attacco; con quali conseguenze? Andò bene, per il momento. I nostri proseguirono l’azione e gli Austriaci, ritenendosi in inferiorità numerica, arretrarono cedendo tutte le loro posizioni, che vennero occupate dai nostri. Ad azione conclusa, mi portai a raggiungere i miei compagni.
Ci ritenevamo ormai al sicuro, invece… Non avevamo fatto i conti con l’accortezza e la capacità organizzativa proprie della gente di razza tedesca. Infatti, alle spalle delle loro trincee, essi avevano disposto addirittura un servizio di treni che, nascosti e favoriti dalle accidentalità del terreno, riuscivano a portare soldati fin sotto le trincee stesse. In tal modo erano in grado di condurre al combattimento anche gli storpi, senza farsi condizionare da lunghe marce di avvicinamento, come avveniva per noi.
In breve, i nostri nemici si riorganizzarono e tornarono all’attacco. Una cosa impressionante: saranno stati almeno in duemila! Venivano avanti, a plotoni affiancati, spazzando il terreno con raffiche di mitragliatrice e scariche di fucileria. Era ben evidente, stavolta a nostro svantaggio, la disparità delle forze a confronto.
Il colonnello comandante tentò dapprima, con ogni mezzo, di mettersi in contatto con il Comando superiore, per chiedere rinforzi. Inutilmente: la linea, ahimè, era interrotta; forse un colpo, da qualche parte, aveva tranciato il filo telefonico. Di fronte alla prospettiva del totale annientamento del suo reparto, il colonnello ordinò la ritirata:
“Chi si può salvare, si salvi!” In un attimo, fu un fuggi fuggi generale, una rotta completa. Unico compito di ciascuno, era quello di portare in salvo la propria pelle: lascio immaginare quanto impegno io mettessi nell’assolverlo! Corsi come un disperato, come non avevo mai fatto in vita mia. Scappavo, senza ad altro pensare che ad andare il più veloce e il più lontano possibile.
Davanti, ai miei fianchi, dappertutto, correvano i miei compagni, inseguiti dalla grandinata dei proiettili. Li vedevo cadere a decine, bloccati all’improvviso nella loro corsa come un giocattolo cui si spezzi la molla che dà loro la carica, e ruzzolare a terra, con i corpi squarciati; pezzi di testa che mi volavano attorno, sorpassandomi, brandelli di budella che schizzavano per aria per rimanere appesi, come stracci sanguinolenti, ai rami spinosi delle acacie.
Nella frenesia della fuga, avvertii un colpo al capo, sulla sommità; ma che stai lì a vedere cosa è successo? nessun ‘altra occupazione, in quel momento, avrebbe potuto essere più importante dello scappare. Controllai dopo: un proiettile aveva trapassato da parte a parte l’elmetto, risparmiandomi la testa: se fosse stato un dito più in basso?”