PERCHE’ DEVO UCCIDERE QUEL RAGAZZO?

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«Non ho potuto evitare l’uccisione del soldato nazista»
23 dicembre 2016
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CAPORETTO, NEL RICORDO DI PIETRO MENICHINI
23 dicembre 2016

PERCHE’ DEVO UCCIDERE QUEL RAGAZZO?

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    Di Valido Capodarca

 

 

Aveva 92 anni e mezzo, Luigi Postacchini, contadino delle campagne fermane, nel momento in cui mi confidava il suo tormento, un’età ben più lunga delle normali aspettative umane, ma che non gli era bastata a saziare la sua fame di “perché?”. Prima di cominciare a raccontare la sua vicenda, egli aveva già dato sfogo al tormento che da 73 anni lo divorava. Nessunrisentimento verso i suoi vecchi nemici, anzi qualcosa che andava oltre la comprensione umana. Il suo rancore era rivolto solo verso coloro che lo avevano mandato a compiere azioni contrarie alla sua coscienza.
Così comincia il suo racconto (stralcio da “Ultime Voci dalla Grande Guerra?”)

Ognuno di noi lancia nella sua vita i suoi “perché”, come grida in una valle, e resta in attesa del perché di ritorno; un ritorno che spesso non c’è, e si può passare una vita intera ad aspettarlo.
E quello che cogliamo nella voce del vecchio Luigi Postacchini, 92 anni e mezzo al momento del nostro incontro. Un “perché” carico di rabbia e di ribellione insieme.
«Perché — ci grida — perché devo andare ad ammazzare quel povero ragazzo che ha 19 anni come me, un padre e una madre come me, e che non mi ha fatto niente? Perché gli devo sparare, quando so che neppure lui vuol farlo?” e parla al presente, come fosse ancora dentro quella trincea, dietro quel cumulo di ciottoli che a stento lo riparano dai proiettili che sibilano da ogni lato, quasi si rivolgesse ancora al tenente che, alle spalle, lo sprona ad uccidere, a odiare.
«Perché — continua — devo andare a uccidere quel ragazzo su quella montagna o a farmi uccidere da lui, per rubargliela, se quella montagna è sua? E ogni sera poi, al termine della battaglia, scavare solchi nel campo, come dovessi piantarci dei filari di viti, e gettarvi invece i cadaveri dei tuoi compagni, di coloro con i quali hai diviso mesi di stenti; mettere a dormire per l’ultima volta quell’ amico con il quale avevi diviso la sigaretta mezz’ora prima, quello che poche ore fa ti aveva parlato della sua ragazza che lo aspettava per sposarsi quando tutto fosse finito; e scambiarsi uno sguardo furtivo con il commilitone che in quel momento ti sta aiutando nella triste incombenza, e sentire il tuo pensiero inespresso specchiarsi nel suo: domani toccherà a te seppellire me, oppure…»
Lasciamolo parlare, Luigi Postacchini, lasciamo che riversi su di noi quelle domande che 73 anni prima sentiva bruciargli dentro senza poterle esternare. Lasciamo che racconti la sua sventurata vita dei vent’anni, l’età da tutti più ambita, perché la più bella, e più odiata, perché passa una volta sola. Quando è passata, per questi poveri ragazzi, essi non c’erano: erano lassù, a farsi ammazzare su una pietraia insanguinata.
……..
Vorrei cogliere un altro passaggio del suo racconto. Nello stralcio di ieri, abbiamo visto Pietro Menichini che, il giorno di Caporetto, dall’altura in cui era schierata la sua batteria, vede gli austriaci che sorprendono e fanno prigionieri dei soldati italiani intenti a scavare una galleria. Fra quei soldati c’era proprio il Postacchini, che perciò racconta la stessa scena ripresa dall’altra prospettiva. (Ripeto, questo è il racconto di Postacchini, e rispecchia solo il suo pensiero e il suo ricordo, a prescindere da ogni eventuale verità o falsità storica)
“Un giorno — era già diverso tempo che eravamo al fronte — giunse l’ordine di apprestarci a marciare su Trieste. Dalle retrovie cominciarono ad affluire rifornimenti: camion carichi di ogni ben di Dio arrivavano in continuazione, e si erano formate montagne di materiali: viveri, equipaggiamenti, armi. Sembrava il preludio di un’impresa in grande stile, forse l’offensiva decisiva invece, all’improvviso, un ordine, incomprensibile: mollare tutto e ritirarsi. Ma come, così sul più bello? Niente da fare: ritirata. Ma cos’era successo? una parola dice tutto: Caporetto. Gli Austriaci, avanzando, si impadronirono di tutto il materiale da noi abbandonato e, colmo dell’ironia, lo utilizzarono contro di noi. Tra noi militari si diffuse una voce, che diveniva sempre più un convincimento: il generale Cadorna ci aveva traditi, e si quantificava anche la cifra che il presunto traditore avrebbe percepito: sei milioni di lire per vendere l’Italia fino al Po. Ma a che serve raccontare tutto questo? — è una frase che il Postacchini intercala spesso nel suo discorso — ormai sono tutti morti!
La ritirata, tuttavia, per me non ebbe nemmeno il tempo di cominciare. Quella famosa mattina del 24 ottobre io mi trovavo dalle parti di Cividale. Si lavorava all’interno di una galleria nella quale avevamo passato anche la notte. Di tutto ciò che avveniva all’esterno, nessuno ebbe il tempo di accorgersi di nulla. Ci pensarono gli Austriaci, quella mattina, a darci la sveglia: ce li vedemmo comparire all’improvviso, all’ingresso della galleria, con i fucili puntati su di noi. Ogni tentativo di resistenza sarebbe stato un suicidio: altro non ci rimase che alzare le mani e dichiararci prigionieri