di Valido Capodarca
Fabio Bettini, classe 1896, sergente maggiore di fanteria, venne ferito al Passo dell’Agnello, fatto prigioniero e portato in una prigione austriaca. Con lui viviamo il clima vissuto dai prigionieri di guerra.
(stralcio da “Ultime Voci dalla Grande Guerra”)
“Fatti che fummo prigionieri, fummo condotti a valle. Essendo impossibilitato a camminare a causa della ferita, un bergamasco, un ragazzone robusto che mi faceva come da attendente, mi si caricò in spalla e mi trasportò lungo tutta la china.
A piedi, fummo condotti a Trento, con una marcia di tre giorni; tre giorni senza mangiare né bere nulla. Unico sostentamento, fu una pera che un compassionevole sconosciuto riuscì ad allungarmi di nascosto. Una pera, il carburante per tre giorni!
Caricati su un vagone merci, fummo trasferiti nel lontanissimo campo di prigionia di Felbach, una zona mineraria che oggi dovrebbe far parte della Cecoslovacchia, se non addirittura della Polonia, ma che a quei tempi rientrava nei domini dell’Impero Asburgico.
In questo campo, i miei compagni venivano utilizzati per spingere i vagoncini carichi di carbone risalenti dalle miniere. Il mio incarico era invece di maggior riposo, anche se forse più penoso: tenere la contabilità degli arrivi e dei morti. Si farà fatica a credermi se dico che, su una popolazione di tremila prigionieri, ne morivano in media sessanta al giorno. Gli stenti erano indescrivibili, ma ancor più tetra era la fame: ci si ammazzava e ci si sbranava per contendersi un tozzo di pane o una cipolla.
Un giorno si verificò un episodio che avrebbe potuto costarmi la vita. Mi trovavo sull’arco della porta del mio triste “ufficio di contabilità”, quando uno dei miei commilitoni, passandomi davanti col solito vagoncino, forse perché sfinito, o forse soltanto scivolato, finì a terra. Immediatamente un soldato austriaco gli fu sopra, tempestandolo di colpi col calcio del fucile e urlandogli di alzarsi.
Furibondo per l’indegno trattamento riservato al mio compagno, mi avvicinai all’austriaco e lo redarguii aspramente. Questi, interrompendo la sua azione, rivolse la sua attenzione contro di me. Fece per colpirmi, sempre con il calcio del fucile, ma io fui lesto ad afferrare l’arma e a strappargliela di mano. Rigirai il fucile e, brandendolo per la canna, lo roteai e lo abbattei lateralmente al capo del soldato, scoperchiandogli il cuoio capelluto.
Immediatamente processato, sulle prime sembrava che il mio destino fosse segnato: fucilazione.
La buona sorte mi venne incontro nelle vesti di un ufficiale, un colonnello di quelli che, originari di quei territori che intendevamo liberare, pur militando per dovere di nascita nell’esercito austriaco, essendo di idee filo-italiane, nascondeva la banda tricolore sotto la falda del berretto. Questi mi fece comminare tre giorni di “stringarrest”. Si trattò di restare tre giorni immobilizzato con la mano e il piede destri serrati tra loro da un ferro stretto e rigido.
Al campo c’erano altri due ufficiali, di quelli con la banda tricolore sotto il berretto. Terminato che ebbi di scontare la mia pena, uno dei due (si chiamava Quarantotto) mi chiamò e mi disse:
“Bettini, se resti qui la tua sorte è segnata, capirai che ormai gli Austrìaci te l’hanno giurata: se oserai mettere il naso fuori, sul piazzale, il primo soldato che si troverà di sentinella ti sparerà addosso”.
Fu così che, tramite l’intervento di questo ufficiale, venni trasferito in un campo di prigionia dalle parti di Trieste, dove rimasi fino al giorno dell’armistizio ».