LE PORTATRICI DI MUNIZIONI

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LE PORTATRICI DI MUNIZIONI

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di Valido Capodarca

 

Nel 1993, mentre attendevo alla stesura del Primo Volume di “Immagini ed Evoluzione del Corpo Automobilistico”, nel raccontare la Prima Guerra Mondiale mi venne in mente di andare a cercare qualcuna fra le ultime “portatrici di munizioni” della Carnia. Cosa potevano avere a che fare le portatrici con il Corpo Automobilistico? Avevo proprio voglia di scambiare quattro chiacchiere con loro e un motivo lo trovai. I nostri autieri, con i loro 18/BL, riuscivano a trasportare i rifornimenti fin dove arrivavano le strade ma… da lì alle trincee? Ecco che intervenivano le portatrici a completare il lavoro degli autisti. Così, nell’autunno del 1993, accompagnato dal Cav. Nilo Lunazzi, presidente della Sezione A.N.A.I. di Udine, giunsi a Paluzza (paese di Manuela di Centa), dove ne vivevano ancora due: la 98enne Anna Maria Pittino e la 90enne Lucia Ortis, una vecchina minuta,ma vispa e carica di simpatia. Mi fece vedere perfino il libretto dove venivano conteggiate le giornate di lavoro. Lei aveva solo 12 anni, in quel 1915 e per farla lavorare suo zio dovette firmare per assumersi la responsabilità. Solo che, mentre la paga era di 5 lire al giorno per tutti, lei, essendo troppo piccola, ne prendeva 4. Ecco uno stralcio della sua intervista:
“ Tutte le mattine mi recavo,con la squadra delle portatrici, a Timau, dove c’era un deposito di munizioni. Non usavamo le solite gerle da montagna. Avevano costruito un particolare attrezzo, un’intelaiatura di legno con cinque fori verticali, dentro ognuno dei quali alloggiava un proiettile. Una volta sapevo anche come si chiamavano,ma ora l’ho dimenticato Saranno stati lunghi un 25-30 cm, e con diametro di più di 10 cm. Fra proiettili e contenitore saranno stati una trentina di chili.
Riempito il contenitore, ce lo caricavamo dietro la schiena, con delle cinghie che ci avvolgevano sulle spalle passando sotto le ascelle, e si affrontava la salita. Il percorso era in genere sui 9 chilometri, su per una mulattiera che era stata tracciata dagli stessi soldati; solo che di muli, dalle nostre parti, non ce n’erano. In alcuni punti il nostro stesso, continuo passaggio aveva creato delle scorciatoie, sentieri ripidi di mezzo metro di larghezza con i quali tagliavamo qualche tornante. Tutto il percorso richiedeva circa 4 ore per salire,un po’ meno per scendere. Normalmente facevamo un viaggio al giorno, ma nei giorni in cui si sparava di più si rendevano necessari anche due viaggi nella stessa giornata.
Si arrivava su in trincea dove poggiavamo a terra il nostro carico. A volte si arrivava su mentre era in corso i bombardamento di artiglieria austriaco; in questi casi c’erano degli appositi rifugi a poca distanza dalle linee, dove andavamo a trovar riparo in attesa che la buriana passasse. I soldati, anche durante il bombardamento, restavano invece in trincea perché quello era il loro dovere.
Qualche volta avveniva però che il cannoneggiamento iniziasse proprio quando eravamo sulle linee a scaricare il nostro fardello. In questi casi non restava che buttarci a capofitto anche noi dentro la trincea, a ripararci insieme ai soldati. Fu in una simile circostanza che al Malpasso morì Maria Plozner. Aveva 32anni, era sposata e aveva 4 figli. Appena scaricato, aveva fatto due passi in avanti verso la trincea, quando venne colpita in pieno da una scheggia. Alla sua memoria venne intitolata una caserma proprio a Paluzza che porta ancora il suo nome.
Qualche volta sulle nostre spalle c’erano gerle piene di viveri, oppure di biancheria, che noi stesse ritiravamo e riportavamo su pulita. Altre volte ci toccava trasformarci anche in portaferiti. In due, una davanti e una dietro, portavamo a valle la barella con il ferito sopra, per la stessa strada per la quale avevamo portato su le munizioni. Le difficoltà si ingigantivano d’inverno, quando tutti i sentieri venivano coperti da una spessa coltre di neve. Allora toccava fasciarsi le gambe come facevano i soldati, imbottirsi ben bene e andare su; ma erano gli stessi soldati che ci facilitavano il compito, spalando la neve quel tanto che bastava per camminarci senza sprofondare.

Quando ci fu la ritirata di Caporetto, molti soldati dovettero lasciar la montagna e fuggire,per fermarsi al Piave; ma fuggirono anche molti civili. Noi, invece, restammo qui ad aspettare”

Nella foto, il deposito di munizioni di Timau. Da qui iniziava il lungo cammino di Lucia.