I VECCHI REDUCI PARLANO DEI LORO NEMICI

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I VECCHI REDUCI PARLANO DEI LORO NEMICI

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di Valido Capodarca

Per realizzare “Ultime Voci dalla Grande Guerra ho intervistato oltre cinquanta reduci, fra cui due austriaci, pubblicando poi 30 storie. Li ho sentiti parlare male del Governo, dei generali, della guerra, della fame, della morte, ma mai dei loro antichi nemici. Eppure 75 anni prima era con essi che avevano scambiato fucilate, cannonate, baionettate; era da loro che alcuni erano stati feriti e resi invalidi a vita. Trovo riprovevole, se non peggio, che oggi ci sia chi invece esprime commenti come se la guerra non fosse ancora finita. Ma forse è vero che per capire il dolore dell’altro bisogna starci dentro. Questa volta lo stralcio dal libro lo voglio riferire alle frasi che alcuni di essi mi dissero a riguardo di coloro che qualcuno aveva messo loro di fronte come nemici.

Ottone ORIGLIA

«La nostra vittoria finale non fu frutto di una superiorità militare, o di un maggior valore dei nostri soldati. Gli Austriaci furono costretti a cedere soltanto per la mancanza di sostegno alle spalle. A un certo punto, a causa della disfatta su altri fronti, i nostri nemici non vennero più alimentati, e dovettero ripiegare».

Significativo, e quasi toccante, il rispetto che Ottone dimostra nei confronti dei suoi antichi avversari.

«Erano dei soldati in gamba, e sapevano combattere. Erano anche leali, come dimostra l’episodio riferito dei cucinieri. Inoltre, furono anche sfortunati, e non li avremmo mai piegati se non fossero stati abbandonati dal loro governo».

Non c’è astio o rancore nei confronti di coloro con i quali si trovò a scambiarsi fucilate o a duellare con la baionetta. Nessun risentimento, neppure per la ferita che si trascina da 75 anni, e che ancor oggi lo fa zoppicare.

«Erano ragazzi come noi, mandati come noi al macello da ordini superiori. E poi, quei territori erano di loro proprietà: noi li volevamo, essi non li volevano cedere, perciò…»

Filippo SIMONELLA

«Io, in tutta la guerra, non ho mai tirato un colpo addosso a nessuno. Sì, qualche tiraccio, da lontano, l’ho sparacchiato, in direzione delle linee nemiche; ma vai a sapere dove andava a finire!?”

“Ma — lo incalziamo — se ti fosse capitato di trovarti faccia a faccia con un nemico armato, non gli avresti sparato?”

“Dio me ne scampi. Perché devo sparare a uno che non mi ha fatto nulla?”

“Ma in questo caso — obiettiamo — ti avrebbe sparato per primo lui”.

“E chi se ne frega!?”

Giovanni MICHELUCCI

Se la nostra condizione era da bestie, non migliore era quella dei nostri nemici. Poveri ragazzi, anche loro! Quando ebbi modo di vederli la prima volta da vicino, ne ebbi un’impressione tale che il pensiero che mi balenò spontaneo mi rimase impresso per sempre: “”Forse noi non vinceremo mai questa guerra; ma di certo non la vinceranno mai neanche loro!”

Una cosa, in particolare, ci accomunava ai ragazzi che ci erano stati posti di fronte come nemici: il desiderio che tutto passasse in fretta, per tornare tutti a casa.

Forse proprio questa comunanza di un identico, tragico destino, la condivisione di una stessa vita ai limiti dell’immaginabile, ci spingeva a solidarizzare. Le contrapposte trincee erano vicinissime. Sporgendosi da esse ci si guardava nel fondo degli occhi. Spesso, anzi, si usciva, si fraternizzava, ci si scambiava paure e sensazioni, ci si offriva perfino le sigarette l’un l’altro.

Se non arrivavano ordini appositi dai rispettivi Comandi, nessuno dei due schieramenti si sarebbe sognato di assumere l’iniziativa di attaccar briga. Purtroppo questi ordini arrivavano, e in quei momenti si tornava ad essere nemici, a tentare di uccidere quello stesso ragazzo con il quale, poco prima, si era diviso lo stesso sasso per sedile.

Joseph EICHNER

Le trincee austriache e quelle italiane erano molto vicine, da qui a lì. Quando non c’erano combattimenti in corso, ci si alzava e ci si parlava. C’erano dei soldati italiani che conoscevano il tedesco: con questi si intrecciavano lunghe conversazioni.

Le condizioni igieniche erano disastrose. Se gli Italiani erano pieni di pidocchi, per noi, se non erano pidocchi, erano pulci.

(Nella foto: la Strada della morte, sul Monte Grappa, con ancora i crateri delle cannonate)