di Valido Capodarca
La disfatta di Caporetto, che costrinse l’Esercito Italiano a indietreggiare fino al Piave, secondo alcuni fu dovuta al tradimento da parte di qualcuno fra le alte gerarchie militari. Leggiamo come la visse e la interpretò Enrico Mercuri, un semplice fante che non riuscì a portare a termine la ritirata.
“Giunse l’autunno del ‘diciassette, la fine di ottobre, il 24 di ottobre. Il mio reparto era schierato in trincea, tra Montenero e Monterosso, sull’Altopiano della Bainsizza.
Ero finalmente riuscito ad ottenere, dopo quasi due anni ininterrotti di vita militare, una licenza di quindici giorni. Alle tre di notte avrei dovuto lasciare l’accampamento e portarmi in retrovia per prendere il treno che mi avrebbe condotto a casa. Lascio immaginare con quanta impazienza
io attendessi quel momento.
Il Comando superiore, con un ordine incomprensibile, ci aveva privato delle munizioni. A un reparto di bersaglieri schierato al nostro fianco, erano state fatte addirittura scaricare le armi. Tutto ciò che era rimasto alla mia compagnia, per sua difesa, era una cassetta di munizioni per mitragliatrice, una per fucile, e un certo numero di “torpedini”. Erano, queste, delle particolari bombe con funzioni antireticolato. Secondo le intenzioni di chi le aveva ideate, esse avrebbero dovuto essere lanciate, nel corso dei nostri attacchi, sui reticolati nemici. Se anche non avessero fatto danno, quantomeno avrebbero generato un gran fumo, al riparo del quale noi avremmo potuto avanzare. Non avemmo mai occasione di verificare la loro utilità, né tantomeno avremmo potuto farlo in quella circostanza: poiché era il nemico ad attaccare, avevamo tutto il nostro tornaconto a vederlo bene, mentre arrivava.
Il bombardamento si protrasse, continuo e intenso. Alcuni proiettili, caduti su un ponte alle nostre spalle, lo avevano distrutto, ed ogni via di ritirata ci era stata preclusa.
Alle quattro del mattino, i primi Austriaci erano già a nostro contatto diretto. Si fermarono a un centinaio di metri dalla nostra posizione, e da lì iniziarono a sferrare attacchi a ripetizione.
Ci difendemmo accanitamente, con l’unica mitragliatrice a disposizione. Ogni volta che i nemici tentavano un attacco, venivano inesorabilmente falciati, segati alla vita. Il campo si riempiva di cadaveri.
Resistemmo per dodici ore filate, sempre con quella sola mitragliatrice. Verso le quattro del pomeriggio gli Austriaci, portatisi alle nostre spalle, riuscirono a completare l’accerchiamento. Fu solo a quel punto che ci rendemmo conto dell’inutilità di ogni ulteriore resistenza.
“Fermiamoci, signor tenente, arrendiamoci che qua ci ammazzano tutti!”
La mitragliatrice cessò il suo canto, e tutti alzammo le braccia.
Il suolo era tutto una distesa di morti, e noi ci portammo incontro al nemico camminando sopra i cadaveri.
“Vigliacchi, Italiani! — ci gridavano i Tedeschi mentre ci consegnavamo nelle loro mani — vi siete venduti! a noi erano rimasti viveri per tre giorni!”
Ci lasciarono, con questo, intendere che se qualcuno, tra i nostri, non avesse tradito, in capo a tre giorni sarebbero stati essi, ad arrendersi. Grazie invece a quanto era avvenuto, e con i viveri tolti a noi, sarebbero andati avanti per un anno ancora.
Ebbe inizio, in quel tragico pomeriggio, la mia vita di prigioniero di guerra.
Per colmo d’ironia, agli occhi dello Stato italiano, stando alle dichiarazioni del Comando dell’Esercito, noi dovevamo essere considerati traditori, per esserci arresi al nemico, anziché farci ammazzare o almeno fuggire.”