CAPORETTO, NEL RICORDO DI PIETRO MENICHINI

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CAPORETTO, NEL RICORDO DI PIETRO MENICHINI

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di Valido Capodarca

Quando, sul finire di maggio 1991, andai da Menichini a regalargli una copia del libro con la sua storia, lo trovai ammalato di tumore. Dolori lancinanti lo torturavano giorno e notte. Una fine decisamente immeritata, per chi tanto aveva già sofferto per la Patria. Vorrei farlo rivivere per qualche minuto, affidando al suo ricordo il compito di raccontarci la sua “Caporetto” (stralcio da Ultime Voci dalla Grande Guerra” )

“Trascorsa tutta l’estate sull’altopiano, si giunse alla fine di ottobre.
Una notte, sotto un autentico diluvio, gli Austriaci diedero avvio a un intenso fuoco di artiglieria. Trascorremmo tutta la notte sotto l’acqua, a chiederci cosa mai stesse accadendo. Nell’incertezza più assoluta, si diffondevano le dicerie più strampalate come quella secondo la quale i nostri avrebbero catturato, pochi istanti prima, settemila prigionieri.
Si fece giorno. Le prime luci dell’alba ci mostrarono, nella piana, i nostri soldati che scappavano, in una fuga caotica, irrefrenabile. A distanza si scorgevano già gli Austrìaci che avanzavano verso di noi. Ai piedi della montagna, c’erano dei soldati intenti a scavare una galleria con una perforatrice: non si erano accorti di nulla.
Non avendo idea di come comportarci, lasciammo i pezzi e corremmo al Comando di batteria a ricevere disposizioni. Sotto di noi, una cinquantina di metri più in basso, una batteria del 24° continuava a sparare, una reazione forse dettata dalla disperazione, dalla rabbia, dalla consapevolezza che tutto era ormai inutile.
Tornammo in fretta, levammo i pezzi dal piazzale e, a spinta, li portammo fin sulla piazza di Balisti. Cavalli disponibili per tramare canno¬ni non ve n ‘erano e, m ogni caso, ciò che più di tutto mancava, era il tempo per cercarli.
Improvviso, un ordine, tanto perentorio, quanto chiaro: distruggere i pezzi e fuggire. Quattro colpi violenti e precisi con le mazze ed i cannoni, con gli otturatori fuori uso, divennero inservibili.
Scendemmo in basso. Nella valle, lungo l’Isonzo, una visione da far strabuzzare gli occhi: cataste, montagne intere di rifornimenti, quanti non se n ‘erano mai visti prima. Di certo, erano appena arrivati e noi, tutti, stavamo andando via. L’ordine era di distruggere tutto, ma il nemico ormai incalzava; il tuono dei loro cannoni giungeva a noi vicinissimo. Ognuno, prima di andarsene, cercava di far razzia di quanto poteva trasportare.
A Plava, la gente si ammassava sul ponte, cercando di defluire dall’altra parte. Accanto a questo c’era una galleria dentro la quale era spiegato un ospedaletto da campo. Tra i feriti, ormai abbandonati a se stessi, si aggiravano, ubriachi dopo le razzie, soldati in preda allo sbando.
Sul ponte, un carro bagagli di artiglieria, ancora carico di armi e proiettili, stava cercando di farsi strada tra la folla. Sopraggiunse un generale (almeno tale era la divisa) che si rivolse urlando ai soldati a bordo del carro stesso:
“Buttate tutto! buttate tutto! la guerra è finita!”
Senza nulla obiettare, quelli si diedero a tirar giù dal ponte, tra le acque del fiume, l’intero carico. Si seppe poi che, tra le nostre file, si erano infiltrati degli Austriaci, in divisa di ufficiali italiani, con il preciso intento di fomentare lo sconcerto e il marasma.
Lasciato alle nostre spalle il fiume tanto a lungo conteso, spettatore e protagonista al tempo stesso di tante sanguinose battaglie, risalimmo l’altura sulla sponda destra. In cima, un gruppo di donne aspettava.
“Dove sono gli Austriaci?” ci chiesero.
“Li vedrete presto. A momenti saranno qui!”
Ci volgemmo indietro. Si vedevano, in basso, le nostre salmerie immobili. Poco più in là, il nemico che avanzava, inarrestabile.
Scendemmo di nuovo, in direzione di Dolegna. Passando accanto a una polveriera, scorsi una sentinella ancora ferma al suo posto.
“Che ordini avete?” domandai.
“All’ultimo momento, far saltare tutto e fuggire”.
Continuammo a marciare, per chilometri ancora, fino a che i nostri ufficiali si diressero verso San Giovanni Manzano, mentre noi artiglieri, stremati, ci lasciammo cadere a terra per riprendere fiato.
Verso le dieci di sera, improvviso, un boato, mentre la terra prese a tremare: ligi all’ordine ricevuto, i soldati di guardia avevano fatto saltare la polveriera. Come se la scossa ci avesse restituito le energie, balzammo in piedi e ci portammo anche noi in direzione di San Giovanni Manzano. Da Cividale, simili a fuochi di artificio, si alzavano al cielo i razzi di segnalazione austriaci. Da San Giovanni si levavano alte lingue di fuoco, mentre il cielo si tingeva di rosso: i nostri avevano già dato alle fiamme i magazzini, con lo scopo di fare terra bruciata davanti al nemico.
Raggiungemmo il paese. Gli ufficiali avevano avuto il tempo di approntare un cartello, con su scritto il numero del reggimento e della batteria. Lo avvistammo e ci portammo tutti sotto di esso. In breve, la batteria si trovò ricomposta quasi al completo. Mancavano invece notizie del capitano Montanari. Ormai disperso, non fummo più in grado di sapere, neppure in seguito, quale sorte gli fosse toccata.
Riprendemmo la marcia, tutti insieme, e l’essere rimasti uniti fu la nostra fortuna.
Varcammo il Tagliamento. Fermi sulla sponda destra, alcuni ufficiali lasciavano defluire i reparti che transitavano a ranghi completi, e bloccavano i soldati sbandati e isolati, obbligandoli a far sosta sulla riva per opporre resistenza al nemico.
Quando fummo tutti sulla sponda destra, uno dei nostri ufficiali, guardando indietro, si accorse che il ponte era già minato. Fattosi dare un fucile, prese di mira una delle cariche. Questa esplose, gli scoppi si propagarono a catena, e di quello che era un ponte restò un cumulo di macerie, simile a una rudimentale ma poderosa diga. Le acque del fiume si addossarono all’improvviso ostacolo e, non trovando sbocco al loro deflusso, cominciarono a salire di livello. In pochi minuti, a monte dello sbarramento, si formò un lago.
Riprendemmo il cammino: una lunga, interminabile marcia, per giorni e giorni, ma sempre tutti insieme. Per mangiare, ci si arrangiava con ciò che si riusciva a trovare per la campagna.
Quando passammo il Piave, non e ‘era ancora alcuna difesa in atto sulla riva destra, anzi non si sapeva neppure che poi essa sarebbe stata costituita su questo fiume. Voci incontrollate, parlavano addirittura di una resistenza da approntare sul Po. Solo in seguito si seppe che la volontà del Re aveva deciso, senza tentennamenti, per il Piave.