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Quando ho avuto diciotto anni ho pensato di andare nei carabinieri. Mio padre mi ha detto: «Ah, è mica il tuo mestiere». Allora ho pensato di andare in America, e mio padre: «Va’, ma io i soldi non te li do». Sempre lavorando di qua e di là è arrivato il tempo che sono partito da soldato, era il 10 settembre del I9I3- Mio fratello era già sotto, era caporalmaggiore degli alpini in Tripolitania. Mi hanno messo nei granatieri a Roma. [… I.
Il I7 maggio del 1915 sono arrivato a Palmanova, sempre con il 1° Granatieri. Era già da un po’ che predicavano la guerra. A noi ci sembrava di andare a nozze, noi non ,sapevamo che cosa era la guerra. […I. Poi dalle parti di Cividale viene a passarci in rivista D’Annunzio, un poeta.
Dall’altra parte del fiume, proprio di fronte a noi, c’era una garitta con gli austriaci della dogana. Il mattino del 24 maggio arriva un capitano tutto armato e ci dice: «Ragazzi, da stassera a mezzanotte la guerra incomincia. Sentirete un colpo da 305 sparato da Palmanova, è il segnale della guerra». Allora io grido agli austriaci della dogana: «Cosa fate lí? Aspettate che vi facciamo prigionieri?» E loro mi rispondono: « Dove vuoi che andiamo? Se abbandoniamo il posto ci arrestano». (..) .
Poi siamo arrivati a Monfalcone, tutte le luci erano ancora accese, gli austriaci non credevano che noi arrivassimo presto cosí. L’indomani mattina, con il mio comandante di battaglione, Manfredi, siamo andati a occupare una collina. Ma la nostra artiglieria si è messa a sparare con i 149, non ho poi mai piú visto la nostra artiglieria a sparare bene cosí, ne ha ammazzato un bel numero dei nostri! E come se non bastasse, il comandante dell’artiglieria è poi venuto ad aggredire il nostro comandante di battaglione, a fargli la colpa di non averlo avvertito della nostra avanzata. Allora il mio comandante di battaglione ha tirato fuori la pistola e voleva ucciderlo, e anche il comandante dell’artiglieria ha impugnato la pistola e voleva uccidere il mio comandante di battaglione!
Dopo sei mesi siamo saliti sul Sei Busi. Lí sono andato diverse volte all’assalto. (..). Poi sono caduto prigioniero ad Asiago, perché gli ufficiali del Sabotino ci hanno tradito. (..) Appena dopo la cattura incontro un caporalmaggiore di Trento, vestito da austriaco, che mi chiede in regalo una delle mie stellette. Mi dice: «Non voglio sapere che cosa fai a casa di professione, ma ascolta me. Dichiara che fai il contadino, anche se sei un maestro. Se non vai a lavorare in campagna ti spetta la fame. In campagna invece una patata o un uovo riuscirai sempre a rimediarlo». Era il 31 maggio del 1916.
Alla sera ci chiudono in un forte. L’indomani riprendiamo il cammino, la gente di Trento ci sfotte, ci grida: « Italiani avanzate, state occupando Trento ». Poi c’è un bel paese, un posto di villeggiatura. Lí un generale tedesco con il chiodo ci parla in italiano, ci dice: «Italiani, la guerra pér voi è finita. Fate il vostro dovere da prigionieri come lo facevate in tempo di pace».
In un campo di concentramento vicino a Vienna restiamo fermi quaranta giorni. Poi con due russi e dodici italiani mi trasferiscono in un paese poco lontano. Una fame, parlavamo solo di mangiare. Lí nel nuovo paese arrivano i padroni con il sindaco, e ogni padrone deve scegliere un prigioniero. Il padrone che mi sceglie è un vedovo con tre figlie, la piú vecchia delle figlie è gobba. Ho appena raggiunto la sua casa che ci sediamo tutti attorno al tavolo, io non capisco una parola, loro parlano ed è come se balbettassero. Poi una delle ragazze sparisce, e ritorna con tre uova sbattute e un pezzo di pane, oh cristu! Appresso un bel bicchiere di vino. Poi mi dice: «Tu nicht rauch? » ma io non capisco. Allora si mette un dito in bocca, sparisce di nuovo, e ritorna con un pacchetto da cento sigarette.
Dopo cinque mesi incomincio a capirli già nel parlare. Come la Russia ha fatto quel bataclan (sconvolgimento), quando in Russia c’è stata la rivoluzione, gli austriaci hanno preso le truppe dal fronte russo e le hanno mandate sul fronte italiano. Allora arriva una lettera al mio padrone, che se mi lascia libero mandano a casa suo figlio. lo sono deciso a scappare per la campagna, ma il mio padrone mi dice: «No, no, non finirai in un campo di concentramento, non avere paura. lo so già chi ti prende». Alla sera arriva uno, un consigliere del paese, un uomo di settantadue anni che ha cinque figli sotto le armi. Sua moglie tiene il letto da molti anni. Ha una figlia del mio tempo. Vado con lui, è un brav’uomo, mi paga tre corone al giorno, e poi mi regala altri soldi di premio. Io lo dico, gente brava come questa io non l’ho mai piú trovata. Il mio nuovo padrone si chiama Vosna Leopold, e sua figlia.Anna. (..).
Il 3 novembre 1918, con un carro carico di fieno, sto andando verso Vienna. Un soldato che porta a spalle un sacco di patate mi chiede di poter salire sul carro. Mi dice « Krieg fertig, la guerra è finita».
A Vienna dormo come al solito nell’osteria. Sento a dire che gli italiani sono già.a Gratz. L’indomani mattina vado a scaricare il fieno e poi prendo la strada del ritorno. Il fiume che attraversa Vienna è il Danubio. C’è un ponte, c’è la ferrovia, e poi una grossa caserma. Sento che i soldati austriaci stanno rompendo tutti i vetri della caserma. Poi vedo un soldato austriaco che arriva sulla piazzetta, tiene un maggiore per il collo, il maggiore sanguina dal viso. «Oh cristu, – mi dico, – ‘sta volta ci siamo». «Plasmi steno, plasmi steno, – mi grida il soldato, – fermati, fermati». Io ho i due cavalli che tirano, stento a fermarli. Quel soldato mi porge un fucile, mi dice: «Signori tutti kaput. Ci hanno fatto fare la guerra. Noi eravamo amici e ci hanno mandati al massacro. Li ammazziamo tutti i signori ». Vuole che io prenda il fucile, vuole che mi unisca ai ribelli per fare la rivoluzione. Ma io scappo via, li faccio di corsa i diciassette chilometri che mi separano dal paese.
Come arrivo al paese incomincio a gridare: «Fioi (ragazzi), c’è la pace. E’ finita la guerra, non togliete piú le patate». Arriva il sindaco e ci dice: «Ragazzi, siete in piena libertà. Non abbiamo piú né esercito né niente. Ascoltate me. Nelle campagne tutti sparano, ammazzano di qua e di là. Restate ancora qui con i padroni per qualche giorno ». Il 10 novembre è festa. Organizziamo un ballo con la gente. (..). Poi decidiamo di partire. Io sono già lungo la strada quando mi raggiunge Anna, che mi dice: «Volevo ancora salutarti, mia madre ti manda dodicimila corone per il viaggio ».
A Vienna saremo centomila i prigionieri liberi. La città è deserta, non si vede un solo borghese, tutte le persiane sono chiuse. [… I. Raggiungiamo Lubiana, e dopo venti giorni arriviamo a Trieste.
Il 24 dicembre torno a casa con quindici giorni di licenza. Dico a mio padre: « Vúghes? (vedi). Se andavo in America invece di passare questi anni sul Carso… E intanto mi sono salvato per grazia di Dio, e sono tornato a casa carico di pidocchi. Se andavo in America potevo avanzare un po’ di soldi, non di pidocchi».
Finisce la licenza e devo raggiungere Fiume. La città è di nessuno, c’è D’Annunzio, ci sono i francesi, tutti vogliono Fiume. Lí siamo italiani contro italiani. Vede la politica com’è? Di sera facciamo le ronde, poi arriva il plebiscito. Allora il nostro colonnello Dina, un milanese, un brav’uomo, ci dice: «Domani mattina andrete a bloccare quella strada, non alzate le baionette, ma se non si fermano li picchiate nelle gambe». L’indomani arrivano dieci navi di italiani, di borghesi, che gridano: «Viva l’Italia». I soldati fiumani hanno un nastrino con su scritto « italiani o morte ». Quando la faccenda di Fiume finisce il colonnello Dina ci dice: « Io ho fatto tutta la guerra, sono rimasto ferito sul Sabotino. Per conto mio chi ha fatto la guerra siete voi, dal soldato al sergente». Ci regala cinquanta lire a ciascuno, ci dice: «Ricordatevi dei colonnello Dina».
A casa mi aspetta la solita vita.