Alla ricerca dei ricordi sotto il ghiaccio

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Alla ricerca dei ricordi sotto il ghiaccio

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GRANDE GUERRA – La guerra bianca è uno degli aspetti insieme più mostruosi e più affascinanti del primo conflitto mondiale in Trentino. A cento anni di distanza stanno emergendo nuove tracce in alta quota. E c’è qualcuno che si preoccupa di preservarli.

Marco Gramola è prima di tutto un appassionato di montagna e di storia. Non solo la storia con la S maiuscola, ma anche quella delle piccole cose: la lapide lasciata in memoria di quell’ufficiale sfortunato che è morto travolto da neve e ghiaccio; il diario dell’ufficiale austriaco di vedetta su una torretta anti-aerea che riceve in regalo dagli italiani nell’inverno del 1917 un pacco contenente un panettone. La storia che lui e gli altri delComitato storico della SAT aiutano a ricostruire a partire dalle tracce indelebili lasciate sul nostro territorio.

Indelebili o quasi. Come racconta Gramola, le cose hanno iniziato a cambiare drasticamente attorno al 2000. «Ighiacciai hanno cominciato a scongelarsi e in alta quota si sono registrate le emersioni dei primi reperti della Grande Guerra, rimasti sepolti per cento anni».

Camini, travi, strutture che spuntavano dal ghiaccio che sempre più velocemente cedeva il passo. Reperti unici, perfettamente conservati, come la baracca che è spuntata sul Gran Zebrù. «Tutte queste per noi non sono sorprese – spiega con fare esperto – la collocazione di tutte queste strutture militari è documentata nei testi dell’epoca. Come ad esempio la galleria austriaca del Corno di Cavento: sapevamo che esisteva, ma non eravamo sicuri di dove fosse!»

Sapere e trovare sono due cose diverse: ad esempio il ghiaccio sciogliendosi si sposta verso il basso, e si porta dietro tutto. In cento anni le cose possono cambiare moltissimo. Eppure quando nel 2003 Marco Gramola entrò per la prima volta dentro quella lunga e complessa galleria, tutto era fermo al novembre del 1918, alla fine della guerra. Congelato in un secolo di ghiaccio e neve.

«All’interno della galleria ma anche delle strutture l’acqua dello scioglimento estivo percolata si era trasformata in ghiaccio, conservando perfettamente ogni oggetto all’interno del ghiacciaio.» Era sempre stato sotto il ghiaccio, domando. «Certo. Chi pensa che dove troviamo costruzioni  della prima guerra mondiale sepolte nel ghiaccio allora non ce ne fosse si sbaglia. A 3.000 metri, dove le tormente di neve e il vento possono smuovere lastroni di ghiaccio e pietre, credimi è molto meglio starsene sotto lo scudo protettivo di un ghiacciaio. Non solo perché così si è al sicuro dalle intemperie, ma anche perché c’è una protezione in più dai colpi dell’artiglieria nemica.»

Ed è così che è andata anche per le gallerie del Corno di Cavento, lunghe 8 chilometri e scavate 20-25 metri sotto la calotta esterna del ghiacciaio. «È solo perché non si è più fatta manutenzione che il ghiaccio si è impossessato anche delle parti interne. E da un lato questo è un bene: quando siamo riusciti ad entrare era tutto letteralmente congelato nel tempo».

Tornando indietro ai primi anni Duemila, Gramola richiama alla memoria tutti i passi che hanno portato oggi all’apertura di una struttura vecchia di cento anni ma visibile in tutta sicurezza. Quest’estate oltre 700 persone si sono arrampicate sul crinale per farsi condurre dentro a una struttura unica nel suo genere. «Punta Linke, ad esempio, è stata meno interessante da un punto di vista dei ritrovamenti. Era un punto di incontro tra due teleferiche, quindi prevalentemente un magazzino. Qui a Cavento invece austro-ungarici e italiani si sono passati la palla quattro volte».

Costruito dal genio austriaco nel 1916, questo complesso militare fu conquistato dagli italiani, riconquistato dagli austriaci e finì la guerra occupato da militari del regio esercito italiano. E di tutti questi vi è una traccia, per quanto flebile. «Le porte hanno i segni delle scritte in italiano, ma abbiamo trovato tracce della presenza di soldati dell’Impero – in particolare cechi e polacchi» spiega l’alpinista.

Oggi la struttura è visitabile grazie all’impegno della SAT che subito si rese conto dell’importanza di ritrovamenti come questo. «Redigemmo un documento ufficiale per la salvaguardia dei reperti ad alta quota e lo consegnammo in Provincia. Qui fu presa la decisione di mantenere la memoria e non di ripulire le montagne e i ghiacciai dalle tracce della Grande Guerra, cosa che temevo». Così cominciarono una serie di collaborazioni tra SAT, Guide Alpine, Bacini Montani e Provincia per ricordare piuttosto che cancellare.

Uno dei primi lavori di recupero riguardò uno Skoda da 204 mm nel gruppo della Presanella. E poi, appunto, tra il 2007 e il 2010 il recupero del Corno di Cavento. Estati passate in quota a scongelare i reperti, catalogarli e fotografarli; ma anche a consolidare le strutture non più trattenute dal ghiacciaio. «Quelle del 2003 e del 2004 sono state le estati peggiori per i ghiacciai: si stava sciogliendo tutto» sottolinea lo storico. Ma soprattutto si è fatto un lavoro certosino che ha portato alla scoperta di oltre 1.500 oggetti vari, liberati pazientemente dal ghiaccio con tre potenti convettori di calore. «Molti sono oggetti seriali: armi, munizioni, elmetti, giberne, borracce o gavette. Ma abbiamo anche trovato oggetti personali di soldati austriaci e italiani. Il cibo, limoni, uova, cipolle e arachidi, era ancora dove lo avevano abbandonato. Ma forse la cosa che più mi ha colpito sono state le carte da briscola lasciate sul tavolo», una partita mai finita.

E poi moltissimo materiale cartaceo. Giornali, diari privati o ufficiali, documenti e volanti di propaganda italiana scritti in ceco. «Si trattava dei tipici volantini demoralizzanti, quelli che raccontavano quanto stessero andando male le cose per l’esercito nemico. Gli italiani li scrissero in ceco perché evidentemente sapevano che nella galleria di Cavento c’erano per lo più soldati provenienti da quella zona dell’impero».

Un lavoro di pazienza, «ma anche di motivazione. Penso – spiega Marco Gramola – che non si sappia mai abbastanza del proprio territorio. E sono spinto a saperne di più, a soddisfare la mia curiosità». Quello a Cavento è stato un lavoro del quale la SAT è molto fiera, ma che è anche costata molta fatica e per il quale si è lottato. Non solo con chi non riesce a comprendere pienamente l’importanza di un reperto come quello, ma anche e soprattutto con chi sa benissimo quale sia il valore economico: i cacciatori di reperti che a cento anni dal conflitto continuano a perlustrare le montagne. L’episodio più grave ha avuto luogo nel 2008, quando arrivati sulla vetta per riprendere i lavori, gli operatori della SAT sono stati accolti da un gruppo di escursionisti troppo attrezzati. «Erano arrivati in elicottero, con le tutte mimetiche e stavano aprendo i sacchi nei quali erano contenuti i materiali trovati il giorno prima. È partita una mezza denuncia, i giornali ne hanno parlato per un paio di giorni, ma la cosa si è fermata lì. Anche nei rifugi sabotaggi e furti di materiale della Grande Guerra sono quasi all’ordine del giorno. Poi magari la roba la trovi sulla bancarella di un mercatino o su internet, quando dovrebbe essere in un museo.»

I materiali ritrovato a Cavento invece sono nei magazzini della Provincia, che aspettano di trovare una collocazione sicura per essere mostrati al pubblico – già nel 2010 all’apertura si parlava di Borsone o Spiazzo Rendena. Ma in compenso dal 2011 la galleria è visitabile. Non è semplice da raggiungere, dista infatti 4 ore di cammino per esperti alpinisti dal rifugio più vicino, ma attira comunque un numero elevato di interessati: nei primi tre anni di apertura al pubblico oltre 2.000 persone hanno varcato la soglia aperta appositamente per loro.

Marco Gramola sta lavorando con Stefano Torrione e il National Geographic per raccontare ieri e oggi la Guerra Bianca in una mostra fotografica.

Per chi invece non se la sentisse di affrontare una salita da professionisti, al Museo della Guerra di Borgo Valsugana può trovare il film-documentario ‘Carè Alto 1915-1918. Cavetto.. Per non dimenticare’ di Giorgio Salomon, Franco Filippini e Marco Gramola.