LA TESTIMONIANZA DI UN SACERDOTE

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LA TESTIMONIANZA DI UN SACERDOTE

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di Valido Capodarca

Don Vincenzo Vagnoni, classe 1892, 98 anni al momento del racconto, trascorse tutto il periodo della Guerra come infermiere presso diversi ospedali, dove vedeva arrivare, e spesso morire, chi proveniva dal campo di battaglia. Di memoria lucidissima, tanto che alla sua età ancora scriveva e pubblicava, così conclude il racconto della sua esperienza di guerra.

(stralcio da: Ultime voci dalla Grande Guerra)

«Lo sa — ci domanda — di chi è stato il merito della nostra vittoria? Tutto e solo del Padre Eterno. Dopo che, nel corso della battaglia di giugno, gli Austriaci avevano varcato il Piave, noi eravamo già pronti, con lo zaino in spalla, per iniziare una nuova ritirata. Solo grazie a una lunga e violenta pioggia che gonfiò oltre misura le acque del fiume, venne fermata l’avanzata nemica. Una parte dell’Esercito austriaco, quella che aveva già passato il fiume, non potendo ricevere aiuto da coloro che erano rimasti sull’altra sponda, venne annientata dai nostri, e poté così aver inizio, qualche mese dopo, la nostra controffensiva.

Quando ripassammo il Piave, assistetti a delle scene sconvolgenti. Numerosi soldati austriaci erano ancora lì, lungo la riva, appostati in posizione di combattimento, le armi ancora in pugno e puntate contro di noi, lo sguardo rivolto nella nostra direzione; il tutto reso allucinante da una irreale e assurda immobilità. Sembravano vivi… ed erano tutti morti!

Frugammo nelle loro divise alla ricerca di un documento di riconoscimento, una lettera, qualunque cosa potesse darci un’indicazione sulla loro identità e consentirci di assolvere al triste compito di far pervenire in qualche modo la notizia alle loro sventurate famiglie.

Lei non ha idea — e la voce del sacerdote assume un tono ancora più grave e sofferto — di quale sia lo scenario di un campo di battaglia… dopo la battaglia! Un deserto, il deserto più cupo e spettrale. Nulla è risparmiato: alberi divelti e stroncati, case diroccate, terreno devastato, erba bruciata, sangue, e cadaveri, tanti cadaveri; brandelli di carne, membra umane sparse ovunque, in attesa della pietosa opera di chi è addetto alla loro raccolta.

In battaglia l’uomo perde la sua essenza umana; resta solo la bestia. I nostri soldati, prima di essere spinti al combattimento, venivano ubriacati, e in quello stato di esaltazione intonavano sguaiatamente le loro canzoni più oscene; non si sa quanto esse fossero edificanti per quei compagni che in quel momento, accanto a loro, erano intenti a una ben diversa operazione: quella di morire.

La disciplina, nelle file del nostro esercito, forse perché fallito a volte il tentativo di far leva sull’ideale, veniva mantenuta col terrore. Molti tentavano di fuggire e disertare, ma c’erano i carabinieri che davano loro la caccia; e in più c’erano i reticolati, che non sempre stavano davanti, per non far passare il nemico.

Si diceva anche che, quando c’era un grave episodio di cui non si riusciva a scoprire il colpevole, ci fosse la decimazione. A reparto schierato, si cominciava a contare per dieci, per venti, a seconda detta circostanza. Chi aveva la sventura di trovarsi dove cadeva il numero prescelto, finiva davanti al plotone d’esecuzione.

Questa guerra ha visto il compiersi di atti di eroismo, che hanno esaltato le migliori virtù del¬l’uomo: a quelle gesta, ai veri “eroi” sono stati levati giusti “peana”. Per contro, c’è stato anche chi si è reso protagonista di episodi che, se raccontati, getterebbero disonore sul nostro popolo; ma forse essi non verranno mai raccontati, per non sottoporsi al fastidio di doversene vergognare».

L’ultima frase del venerando sacerdote, di questo archivio incommensurabile di esperienza e saggezza, è al tempo stesso un soffio di augurio e di speranza:

“Speriamo che questi orrori non ritornino più perché, se tornassero una sola volta, sarebbe per l’ultima volta!”

Don Vincenzo si spegneva serenamente, continuando a celebrare messa tutti i giorni, a 101 anni, nel 1993.