NEL 1990, PER QUALCHE REDUCE AUSTRIACO, LA GUERRA NON ERA ANCORA FINITA.

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NEL 1990, PER QUALCHE REDUCE AUSTRIACO, LA GUERRA NON ERA ANCORA FINITA.

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di Valido Capodarca

In quei 15 giorni da me trascorsi, nell’estate del 1990, a Colle Isarco, mi diedi molto da fare per reperire gli ultimi superstiti dell’Esercito austro-ungarico, ma l’unica intervista completa che riuscii a realizzare fu quella con Josef Eichner, della quale ho pubblicato uno stralcio diversi giorni fa. Ecco un’altra foto dello straordinario personaggio, ripreso, a 96 anni, in divisa da lavoro, davanti al suo laboratorio di falegnameria.
In realtà, di reduci, oltre ad Eichner, ne avevo trovati altri 2.
Uno di essi era della classe del 1899, aveva perciò 91 anni. Quando mi presentai a casa sua, dichiarando di essere un maggiore dell’Esercito Italiano, mi ritengo fortunato che egli non avesse in quel momento in mano un fucile, perché sono certo che mi avrebbe sparato. Per lui io ero ancora “il nemico” e, dichiarando che non mi avrebbe raccontato un bel niente, mi cacciò via tra urlacci e insulti.
L’altro era, invece, un sacerdote, classe 1898, perciò 92 anni. Uomo ancora abbastanza lucido ma, o che non ricordasse, o che non volesse, tutto quello che riuscii a scrivere fu il breve testo che segue.
(stralcio da “Ultime voci dalla Grande Guerra”)

“In guerra, come in amore, bisogna essere in due; e due erano, in questa guerra, le sponde del Piave, due gli eserciti che vi si fronteggiavano. Di là c’erano loro, gli altri, i nemici. Erano ragazzi come i nostri: la stessa età. gli stessi affetti, gli stessi sentimenti, la stessa paura.

Abbiamo ascoltato, fino a questo punto, il racconto degli Italiani, e li abbiamo sentiti tutti accomunati da un particolare che ci ha lasciati attoniti: l’assoluta mancanza di odio, o anche di solo risentimento, nei confronti di coloro che qualcuno aveva ordinato loro di odiare. Anche coloro che, da questa guerra, sono usciti menomati o invalidi, parlano con profondo rispetto dei loro antichi avversari. Forse, c’è molta più acredine, oggi, in qualche partita di calcio. Dopo tutto, è vero, nessuno meglio di chi era lì, a soffrire, era in grado di capire: la fame, il freddo, l’angoscia, la nostalgia per la famiglia lontana, erano comuni ad entrambi i contendenti. Il sangue versato aveva lo stesso colore da entrambe le parti, e le lacrime lo stesso, identico sapore.

Ci è parso giusto, a questo punto, ascoltare la voce di chi era dall’altra parte della trincea, mettere a confronto i ricordi, offrire un’immagine speculare dei racconti dei nostri soldati. Non abbiamo avuto molta fortuna. Per quindici giorni, nell’estate del 1990, abbiamo percorso l’alta valle dell’Isarco e valli confluenti: due soli viventi.

Don Wilhelm Ferrigatto di Bressanone, classe 1898, ci ha fornito solo dei quadri, singole scene, non sufficienti alla stesura di un pezzo organicamente articolato. Ci ha colpito, tuttavia, uno di questi quadri.

“Erano gli ultimi giorni di guerra — racconta il sacerdote — noi avevamo esaurito le scorte, e da dietro non arrivavano più rifornimenti. Eravamo tutti in preda alla fame più cupa e disperata. Dalla trincea opposta, a breve distanza, i soldati italiani ci chiamavano, levando al cielo filoni di pane e stecche di cioccolato. Conoscevano le nostre condizioni, e accompagnavano l’esposizione di tanta abbondanza con esortazioni e inviti: Venite di qua! passate dalla nostra parte! abbiamo pane, carne, cioccolato, caffè! Venite! …Ma noi eravamo Austriaci!”.

Tutto il prodotto della nostra ricerca è rappresentato dal racconto che seguirà. Si tratta, occorre dirlo, di un personaggio tanto straordinario da riempire, da solo, con la sua personalità, tutto ciò che non abbiamo trovato ma che è, pur sempre, uno solo.”