E I NOSTRI SOLDATI IN LIBIA? COSA FACEVANO NEL FRATTEMPO?

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E I NOSTRI SOLDATI IN LIBIA? COSA FACEVANO NEL FRATTEMPO?

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di Valido Capodarca

Nell’intensità degli avvenimenti della Grande Guerra, pochi si ricordavano che, nel frattempo, alcune decine di migliaia di giovani italiani, delle classi 1892 e seguenti, erano ancora impegnati nella guerra di Libia, cominciata nel 1911. Chi era giù, allo scoppio della Grande Guerra si guardò bene dal chiedere licenze, sapendo cosa lo aspettava. Fu così che alcuni restarono laggiù per 7 anni senza tornare a casa. Uno di essi è Michele Traini, classe 1892, 98 anni al momento del racconto, morto poi a 104 anni. Venne mandato in Africa nel 1912. Ecco un passo del suo vivace racconto.

“Una volta, attestati ai piedi di una montagna, eravamo fronteggiati da un nutrito reparto di Libici, schierato in vetta. Erano numerosissimi. Su di essi batteva pesantemente il fuoco della nostra artiglieria. I colpi sembravano esplodere tra le loro file, e non era difficile immaginare gli effetti, sicuramente per essi catastrofici.

Quando il Comando ritenne che la resistenza si fosse debitamente ammorbidita, ci venne dato l’ordine di attacco.

Lentamente, cominciammo a guadagnare l’altura, avanzando con ogni circospezione, pronti a rispondere ai loro tiri difensivi. Dall’alto, per contro, nessun segno di reazione. Ancora più su, e ancora silenzio. Si era ormai creata in noi la convinzione che i nostri avversari fossero tutti morti sotto la pioggia di cannonate, e immaginavamo un suolo ricoperto di corpi smembrati e maciullati. Si può capire perciò il nostro sconcerto quando, arrivati sul posto, vedemmo il terreno tutto squassato e sconvolto da crateri, ma di Arabi… nemmeno uno, né morto né vivo. Cer-cammo invano di darci una spiegazione. Dall’altro versante la montagna scendeva verso la costa. Forse gli Arabi erano scesi di là e se ne erano andati via mare, portando con sé i propri morti, o forse avevano escogitato, ai nostri danni, una delle loro solite diavolerie.

Sì, occorre riconoscere, nei nostri nemici, un’astuzia sopraffina, tanto da metterci sovente in seria difficoltà e disorientarci completamente. Ep¬pure non si può dire che il nostro popolo man¬chi di fantasia!

Una notte si levò un grido dal nostro accam¬pamento:

“Guardate quante luci!”

Da lontano, un mare di lumi, come fiammelle di candele, avanzava lentamente, lentamente.

Immediatamente scattò l’allarme. Tutti ci predisponemmo in formazione di difesa. Le artiglierie vennero spiegate, con tutti gli uomini ai pezzi, pronti a far fuoco. La cavalleria lasciò l’accampamento e circondò, a largo raggio, quell’ipotetico esercito nemico. Tutti, con il fiato sospeso e il fucile m mano, restammo svegli e attenti, senza indovinare chi o cosa avessimo di fronte, e pronti a subire un attacco da un istante all’altro.

Da quel mare di luci, a intervalli larghi e quasi regolari, si levava un colpo di fucile: “ta-pum!”

Le luci si avvicinavano, lentissime, come ondeggianti. “Ta-pum!”. Si facevano sempre più distinte tanto che, se non fosse stato perché si rimescolavano di continuo le une alle altre, le si sarebbe potuto anche contare. “Ta-pum!”

All’orizzonte il cielo cominciava a sbiadire e tutti, aguzzando la vista, cercavamo ansiosamente la soluzione del mistero.

Finalmente si fece chiaro, in cielo e nella nostra mente. Verso di noi stava avanzando un gregge di capre, ognuna delle quali recava, legate una ad ogni corno, due candele accese. A condurle era un arabo, solo, vecchio, scalcinato, che sparava con uno schioppo antidiluviano e tenuto, per di più, con la canna rivolta al contrario, come in posizione di spall-arm. Veniva avanti piano piano, ogni tanto caricava, poggiava la canna sulla spalla e “ta-pum!”

Solo nel 1919, a Guerra Mondiale finita, il Traini chiese la prima licenza. Ecco il racconto.

“Scesi col trenino a Servigliano e mi incammi¬nai, a piedi, per i non pochi e non facili chilometri che separavano questo paese da Santa Vittoria in Matenano, dove la mia famiglia coltivava un terreno al momento della mia partenza. Giunto che fui nei luoghi a me familiari, non vi trovai più i miei: durante la mia assenza si erano trasferiti. Giunsi presso un contadino detto “U Fatturittu” e domandai dove fosse il nostro nuovo campo: mi venne indicato. Allorché fui sopra di esso, guardai giù: c’era gente a lavorare. Chiamai. Avevo ancora addosso la divisa, e agli occhi inforcavo gli “occhiali da sabbia”.

Un bambino di circa otto anni si staccò dal gruppetto e corse a casa a chiamare mia madre.

Era mio fratello Pacifico: aveva solo un anno al momento della mia partenza.

“Mamma, vieni un po’ a vedere; c’è su uno, vestito da soldato, non so cosa vuole!”

Mia madre si avvicinò, seguita dal mio fratellino e, come mi vide, le rimase un grido soffocato in gola:

“Ma quello è tuo fratello, Michele!”

Erano passati sette anni!».