di Valido Capodarca
Abbiamo già visto, nella lucidissima rievocazione del bersagliere Ottone Origlia, la descrizione di uno scontro alla baionetta. Leggiamo un altro passo dove egli descrive le modalità degli assalti alle trincee nemiche, in uno dei quali venne ferito e reso invalido per tutta la sua lunghissima vita.(da “Ultime Voci dalla Grande Guerra”).
Gli assalti che portavamo alle trincee nemiche si trasformavano sempre in carneficine. Prima di ogni assalto, venivano effettuate massicce distribuzioni di cognac. L’alcool, si sa, annulla l’istinto di paura. Esso rende leoni, ma ottunde la mente. Io mi rifiutai sempre di farne uso, nel corso dei nostri assalti. In ogni momento era necessario tenere il cervello ben sveglio e lucido, se si voleva carpire ogni più piccola occasione, se ve n’era, per sopravvivere. Bisognava… starci con la testa.
Un giorno, proprio in uno di quegli attimi che preludevano l’attacco, un soldato, a pochi passi da me, balzò in piedi all’improvviso. Reso impavido dall’alcool ingurgitato, cominciò a lanciare invettive in direzione dell’avversa trincea. Poi, con sprezzo del pericolo, allargò le braccia e protese il petto in avanti, sfidando il nemico a sparare. Gli Austriaci non si fecero pregare: una breve, rapida scarica segnò la fine della guerra, e della vita, per quello sventurato.
Non c’è che dire, gli Austriaci sapevano combattere. Ponevano i reticolati adagiati al terreno, invisibili alla nostra vista mentre avanzavamo di corsa. Quando eravamo a pochi metri, uno strattone alle estremità e il filo spinato si alzava di colpo, sbarrandoci la strada e lasciandoci, immobili e senza riparo, in balia delle loro mitragliatrici e dei loro fucili.
Il nostro Comando ci aveva dotato di tronchesi con le quali aprire dei varchi; ma te l’immagini, star lì ad armeggiare con quella sorta di cesoie, col nemico che ti tira addosso, con tutto comodo, da quattro metri di distanza?
Ci dotarono poi di bastoni di gelatina, lunghi una decina di metri. Occorreva portarsi a distanza utile, far passare il bastone sotto il reticolato, dar fuoco ad una estremità, per ottenere un qualche effetto quando l’altra estremità esplodeva sotto l’ostacolo. Il problema era però quello di portarsi a quei dieci metri di distanza. Le cose migliorarono quando giunsero gli Inglesi con certe loro bombarde che, esplodendo, aprivano ampi varchi.
Durante uno di questi assalti dovetti anch’io fermare il mio impeto davanti a un reticolato erettosi all’improvviso. Via tutti, di corsa, a rifugiarci nella nostra trincea, da dove cominciammo un infernale fuoco di sbarramento, nel timore che gli Austriaci, dietro la nostra fuga, tentassero un contrassalto. Sparai tanto a lungo che il mio moschetto modello 91 divenne incandescente.
Mentre ero intento a questa azione di arginamento, il mio vicino di trincea mi gridò:
“Origlia, sei ferito!”
“Ma che dici? dove? Io non sento niente!”
“Qui!” e si toccò con le dita accanto all’occhio destro.
Ripetei d’istinto il suo gesto e, al contatto con la mano, sentii il sangue, che mi colava sul viso. Una pallottola, nel corso dell’assalto, mi aveva sfiorato, strappandomi la pelle e scalfendo l’osso dell’orbita oculare, appena sopra lo zigomo destro.
“Corri, vatti a medicare!” insisté il mio commilitone.
C’è da dire che, benché ormai più nessuno di noi tenesse da gran conto la propria vita, nondimeno ciò che ognuno si augurava era una bella ferita; non grave, quel tanto che bastasse a renderti inabile e toglierti da quell’inferno. Perciò, appena vidi la mia mano imbrattata di sangue, la mia decisione fu immediata: correre al più vicino posto di medicazione. Sennonché, per raggiungere il suddetto posto, era necessario saltar fuori dal nascondiglio, percorrere una ventina di metri allo scoperto, e portarsi in un’altra trincea. Cose, tutte, che feci con la massima velocità di cui ero capace.
Avevo già percorso tutto il tratto scoperto e avevo già spiccato il salto per gettarmi dentro il nuovo riparo, quando una pallottola mi raggiunse alla gamba, poco sotto il ginocchio, spezzandomela letteralmente. Certamente era stata recisa anche l’arteria, poiché il sangue cominciò a zampillare come una fontana, con un fiotto grande quanto era ampio il foro del proiettile. Non c’era alcuno che potesse soccorrermi, e per qualche istante ritenni certo che sarei morto dissanguato.
Rapidamente, sciolsi la fascia che cingeva la gamba buona, e ne feci una sorta di laccio emostatico che strinsi al di sopra del ginocchio, frenando l’emorragia.
Qui finisce la guerra per Ottone Origlia. Egli resterà zoppo per tutta la vita, non riuscirà a formarsi una famiglia e vivrà, fino a 98 anni, ospite di suo nipote. Nonostante ciò, ecco come gli conclude la sua intervista, parlando dei suoi vecchi nemici.
«Erano ragazzi come noi, mandati come noi al macello da ordini superiori. E poi, quei territori erano di loro proprietà: noi li volevamo, essi non li volevano cedere, perciò…»
Che lezione morale per molti, anche oggi, dopo cento anni!