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VITA DI TRINCEA

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di Valido Capodarca

A raccontarci la vita dentro le trincee della Prima Guerra Mondiale, è il grandissimo architetto Giovanni Michelucci, dal cui genio sono scaturiti palazzi, ospedali, la Chiesa dell’Autostrada, quella di Arzignano e quella di Longarone, nonché la Stazione ferroviaria di Santa Maria Novella a Firenze. Durante la Grande Guerra era sottotenente del Genio e la sua prima opera architettonica fu proprio una chiesetta a Smart, presso Caporetto. In un colloquio che mi concesse a 99 anni e mezzo, egli così la descrive. (Nonostante l’apparente assurdità di certe dichiarazioni, posso assicurare che il testo è stato controllato e approvato dallo stesso Michelucci):

“Un inferno, che solo a viverlo si può capire; la negazione stessa dell’esistenza. L’Esercito ci aveva distribuito in dotazione una sola divisa che ci sarebbe dovuta bastare per tutta la durata della vita al fronte, senza mai cambiarla.

La pioggia, sprovvisti di ogni riparo, la prendevamo tutta; la stoffa si attaccava alla pelle, e dovevamo attendere che ci si asciugasse addosso.

Il nostro corpo era un fertile campo per parassiti di ogni genere. Ricordo una scena raccapricciante, protagonista un colonnello.

Eravamo dentro una trincea, e con noi c’era questo ufficiale, persona dotata di una forte carica umana e veramente gentile. A un tratto egli si affondò la mano nel petto, sotto la divisa e, rivolgendosi direttamente a me, esclamò:

“Tenente, guardi come siamo ridotti!”

Tirò fuori la mano, aprendola sotto i miei occhi: stringeva… un pugno di pidocchi!

Se la nostra condizione era da bestie, non migliore era quella dei nostri nemici. Poveri ragazzi, anche loro! Quando ebbi modo di vederli la prima volta da vicino, ne ebbi un’impressione tale che il pensiero che mi balenò spontaneo mi rimase impresso per sempre: “”Forse noi non vinceremo mai questa guerra; ma di certo non la vinceranno mai neanche loro!”

Una cosa, in particolare, ci accomunava ai ragazzi che ci erano stati posti di fronte come nemici: il desiderio che tutto passasse in fretta, per tornare tutti a casa.

Forse proprio questa comunanza di un identico, tragico destino, la condivisione di una stessa vita ai limiti dell’immaginabile, ci spingeva a solidarizzare. Le contrapposte trincee erano vicinissime. Sporgendosi da esse ci si guardava nel fondo degli occhi. Spesso, anzi, si usciva, si fraternizzava, ci si scambiava paure e sensazioni, ci si offriva perfino le sigarette l’un l’altro.

Se non arrivavano ordini appositi dai rispettivi Comandi, nessuno dei due schieramenti si sarebbe sognato di assumere l’iniziativa di attaccar briga. Purtroppo questi ordini arrivavano, e in quei momenti si tornava ad essere nemici, a tentare di uccidere quello stesso ragazzo con il quale, poco prima, si era diviso lo stesso sasso per sedile.

Sembrava che lo facessero apposta, i nostri comandanti. Spesso infatti questi ordini venivano impartiti proprio quando le truppe davano segno di fraternizzare troppo. Una volta, addirittura, venni raggiunto da un ordine di attacco proprio mentre mi trovavo tra le due trincee, in sereno colloquio con un sottufficiale austriaco. Troncammo la conversazione, ci salutammo con una stretta di mano, e ci affrettammo ognuno verso i propri uomini, pronti a spararci e darci la morte l’un l’altro”.

Michelucci sarebbe morto il 31 dicembre 1990, alle ore 18. Mancavano 30 ore (!) al compimento dei 100 anni.

Nella foto di Sandro Cerri: nella Grande Guerra ci si contende pure il sottosuolo; si scava per seppellire i morti italiani, e si trova il terreno occupato dai morti austriaci dell’anno prima.