IL SIGARO DI NONNO PIETRO

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IL SIGARO DI NONNO PIETRO

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di Valido Capodarca

Ancora un episodio di nonno Pietro legato alla Prima Guerra Mondiale. Pur avendo avuto la fortuna di averlo con me fino ai miei 37 anni, egli non mi parlò mai delle sue vicende della Grande Guerra, pur avendole dedicato quattro anni della sua giovinezza, dal 1915 al 1919. Ne parlava solo occasionalmente e solo se stimolato da precise domande e senza andare al di là di una esauriente risposta. Al contrario, mi parlava con profusione di particolari della campagna di Libia per la quale, essendo egli della classe 1891, lo Stato Italiano gli rubò altri due anni della stessa giovinezza. Eccolo in una foto scattata proprio nel corso di quella guerra. L’episodio del sigaro, è dunque uno dei pochi episodi collegati a quell’immane conflitto che recepii dalla voce stessa di nonno Pietro; altri episodi, come quello dello schiaffo a Mussolini, li seppi solo da terze persone.
Un altro piccolo racconto si riferisce al giorno in cui nella squadra doveva essere scelto un caporale (forse fu subito dopo il trasferimento di Mussolini). Il capitano domandò chi avesse qualche titolo di studio, e nonno Pietro alzò la mano dicendo di aver fatto la terza elementare. “Ah, ma allora tu sei un professore!” disse il capitano, e gli conferì i gradi.
Quando, nel 1989, misi mano alla stesura di “Ultime Voci dalla Grande Guerra” egli, pur avendo sfiorato la rispettabile età di 91 anni, era scomparso da 7 anni. Fui non poco turbato quando, intervistando Guido Bellucci (100 anni) o Giovanni Michelucci (99 e mezzo) riflettevo sul fatto che entrambi erano nati prima di mio nonno ed erano ancora vivi.
Da bambino, dunque, trascorrevo giorni interi, spesso settimane, specie d’estate, a Porchia, in casa di nonno Pietro, uomo grande, forte, ma di una bontà e di una semplicità travolgenti. Ma guai a fargli una prepotenza, come ebbe modo di verificare lo stesso Mussolini.
Una delle commissioni più frequenti che mi affidava nonno Pietro era quella di andare alla bottega di “Birinto” (Alberinto), a comprargli un sigaro. “Però niru!” si raccomandava nonno Pietro. Così Birinto spandeva sul bancone tutti i sigari che aveva e mi dava quello che a entrambi sembrava il più scuro.
Avuto il sigaro, la cerimonia era sempre la stessa. Nonno lo tagliava a metà con un coltello, prendeva una delle due metà, se la portava alla bocca e accendeva. A questo punto io restavo beato a guardarlo: senza aiutarsi con le mani, ma con un semplice, repentino movimento della lingua, il sigaro cambiava posizione. Dalle labbra del nonno spuntava la parte spenta, mentre la parte accesa, con la brace, restava nascosta dentro la bocca. Più volte ho insistito per guardargli la punta della lingua, le labbra: non il minimo segno di bruciatura. Ogni sigaro gli bastava quasi una settimana. Lo accendeva 3 o 4 volte al giorno, faceva sei o sette tirate poi lo spegneva. Credo che anche quel 23 giugno del 1982 quando morì, di mattina, perdendo conoscenza di colpo, alle soglie dei 91 anni, si fosse fatto le sue brave tirate.
Nonno mi aveva ben spiegato l’origine del suo strano modo di fumare. Fu durante la Prima Guerra Mondiale. Spesso, nelle lunghe notti in trincea, il sigaro era l’unica compagnia, nel silenzio delle postazioni; un silenzio che rischiava di essere rotto dallo sparo improvviso di un cecchino austriaco che ti faceva secco. Infatti, quando si aspirava il sigaro acceso, per alcuni secondi la brace diventava una sorta di faro luminosissimo nell’oscurità assoluta. La mira dei cecchini austriaci era infallibile: miravano a quella luce e, poveretto chi c’era dietro. Perciò, ecco la contromisura: una volta acceso il sigaro tenendosi al riparo, nonno Pietro girava la parte accesa all’interno della bocca, e il cecchino era bell’e fregato.