QUELLA SASSATA ME LA SAREI POTUTA RISPARMIARE

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QUELLA SASSATA ME LA SAREI POTUTA RISPARMIARE

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di Valido Vapodarca

Fra i 30 protagonisti di “Ultime Voci dalla Grande Guerra”, Ubaldo Panichelli, classe 1894, da San Severino Marche, è forse quello che meglio di tutti rappresenta il prototipo dei milioni di soldati che vissero la Grande Guerra con un solo ideale: dedicare ogni energia del corpo e della mente per trovarsi dalla parte opposta a quella dov’era il pericolo, con il ricorso a tutti gli espedienti: simulazioni, autolesionismo, raccomandazioni… Ecco come egli descrive il momento in cui comincia la rotta di Caporetto.

Una mattina mentre eravamo in trincea scorgemmo gli Austriaci avanzare verso di noi, numerosissimi e sparando a più non posso. Non riuscivamo a capacitarci di cosa stesse accadendo. Un aspirante schizzò in piedi col terrore stampato in viso, scavalcò come un fulmine il ciglio della trincea e si diede a correre all’impazzata in direzione opposta al nemico, gridando:

“Chi si può salvare, si salvi!”

Non ci facemmo pregare, e imitammo l’esempio del nostro superiore. Abbandonammo di corsa il nostro posto di combattimento dirigendoci verso il solito Vallone, dove era il nostro campo. Assieme a me correvano due commilitoni.

Avevamo percorso un certo tratto di strada, quando davanti a noi si parò un capitano, che ci intimò di fermarci e disporci sul terreno, per opporre resistenza al nemico. Titubanti, eseguimmo l’ordine, e l’ufficiale si dileguò.

Passarono pochi minuti e, mentre attendevamo di veder apparire il nemico da un istante all’altro, scorgemmo un austriaco, uno solo, avanzare nella nostra direzione. Veniva giù con la massima noncuranza; ci vide, ci raggiunse e si fermò, in piedi, in mezzo a noi tre. Era più che evidente che non era in possesso delle sue facoltà mentali; molto probabilmente era inebetito dall’alcool, come forse lo erano tutti i suoi compagni.

Con la più assoluta tranquillità estrasse le munizioni dall’apposito contenitore, e si mise a caricare il fucile, col chiaro intento di tirarci addosso, senza minimamente domandarsi se noi fossimo o meno d’accordo. Ci guardammo in viso: il fatto che quell’uomo fosse ubriaco, non ci sembrava una buona ragione per farci ammazzare. Uno dei miei due compagni balzò in avanti e, prima che quello potesse nuocere, lo passò da parte a parte con la baionetta. Il tedesco lasciò il fucile con un gemito, e crollò a terra.

Non restammo lì ad assicurarci che fosse morto, ma riprendemmo immediatamente la fuga.

Mi fermai un istante nei pressi di una grotta, dov’era la nostra fureria, il tempo di gridare al furiere che i Tedeschi stavano arrivando, e proseguii la corsa verso il Vallone.

Mi rendevo conto che stava accadendo qualcosa di molto grave, e ritenni giunto il momento di procurarmi un’opportuna infermità. Raccolsi un sasso da terra, poggiai l’indice sinistro su una roccia, e ci vibrai sopra una terribile mattonata poi, gettato via il sasso, continuai la corsa.

Raggiunsi il campo: vi regnava una confusione indescrivibile. Tutti erano in preda a violenta agitazione, e nessuno sapeva più cosa si dovesse fare. C’erano dei carabinieri che tentavano di fermare, senza successo, quell’autentico branco di animali impazziti.

Ripresi la fuga. Nel frattempo aveva anche cominciato a piovere, e non la smetteva più. Tutti fuggivano, militari e civili, a piedi e con i carri, mescolati senza distinzione di sesso e di età, per le strade e per i campi.

Giunsi a Palmanova e mi presentai presso il locale ospedale militare.

Non c’era ormai più nessuno, tranne chi non era proprio in condizioni di camminare. Avrei voluto far vedere il mio dito ma un dottore, furibondo, mi assalì a male parole:

“E tu, con tutto quello che sta succedendo, vieni qua per una cretinata del genere? Ma pensa a scappare, visto che hai ancora le gambe buone per farlo!”

Mi resi allora conto che quella sassata me la sarei potuta risparmiare.