MENTRE LO FUCILAVANO, INVOCAVA… LA MAMMA!

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MENTRE LO FUCILAVANO, INVOCAVA… LA MAMMA!

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di Valido Capodarca

Ritengo giusto e opportuno soffermarmi ancora sulla testimonianza di una mente eccezionale come quella dell’architetto Michelucci e sui suoi ricordi della vita al fronte. Continuiamo ad ascoltarlo

«Tra i ricordi più dolorosi e che più conservo dentro di me, indelebili, c’è quello che si riferisce alla fucilazione di un soldato italiano.

Un reparto, tra quelli che con noi tenevano il fronte a Caporetto, aveva da poco ricevuto l’avvicendamento in trincea, ed era tornato nelle prime retrovie per godere di un relativo riposo. Ora avveniva, in occasioni come queste, che i soldati, svincolati dall’impegno dei combattimenti, si sentissero un po’ liberi, e si muovessero con una certa disinvoltura.

Questo ragazzo, approfittando della circostanza, si era allontanato per recarsi in paese, a Caporetto, per acquistare un po’ di sapone o altro materiale da toilette, del quale si può ben immaginare la necessità, per giovani rimasti per settimane in trincea senza lavarsi.

Fatalità volle che durante la sua assenza giungesse, improvviso, un ordine di attacco. Il reparto venne radunato in tutta fretta e, fatto l’appello, il soldato risultò assente. Immediatamente iniziarono le ricerche e, di lì a poco, egli venne rintracciato in paese.

Nel giro di due ore venne: riportato al campo, processato per diserzione davanti a una corte marziale, condannato a morte e… ho ormai cent’anni, ma nella mia testa sento ancora le grida disperate di questo povero ragazzo che, mentre veniva trascinato a forza davanti al plotone d’esecuzione, invocava… chi? …la mamma!

C’è una cosa che mi ripugnava allora, e che non ho mai saputo accettare, di questa guerra: il nessun valore che veniva dato alla vita umana, alla sua dignità. Spesso i soldati, come punizione e perché la cosa servisse da monito, venivano legati a un palo e lì frustati a sangue, alla presenza di tutto il reparto.

Non mancavano — come se non bastassero la guerra, la fame, la pioggia, gli stenti — problemi di altro genere, come allorché si diffuse un’epidemia di colera. Coloro che ne rimanevano contagiati venivano curati con un sistema singolare. Venivano caricati su carrette ripiene di calce e, immersi in quella poltiglia bianca a scopo disinfettante, venivano trascinati lontano dal fronte.

Alcuni riuscivano a sfruttare la circostanza, volgendola a proprio personale tornaconto. Accusando falsi sintomi, si facevano caricare su queste carrette, immersi nella calce insieme ai veri malati poi, lungo il tragitto, saltavano giù e, bianchi come fantasmi, se la davano a gambe.

C’era poi chi, dotato di spiccate abilità di recitazione, riusciva a tener lontano da sé ogni sorta di fastidi, i cosiddetti “simulatori”. Ce n’era in particolare uno, nel mio reparto, un fiorentino, un autentico fenomeno nel farsi credere un povero mentecatto. Quando veniva interrogato, sapeva sempre fornire la risposta del perfetto idiota, tanto che i superiori lo avevano esonerato da ogni servizio e da ogni incarico di responsabilità. Un giorno però, in clima del tutto confidenziale e riferendosi alle risposte a vanvera di cui egli gratificava i comandanti

“Caro Michelucci — mi sussurrò — essi pensano che io sbaglio; ma sono essi che si sbagliano!”

Michelucci sarebbe morto sei mesi dopo l’intervista, alle ore 18 del 31 dicembre 1990. Mancavano 30 ore al compimento dei 100 anni!